Da Sanremo («Luca era gay») a «Porta a porta» («Gay: si può cambiare»), gli omosessuali possono diventare etero. C’è la «terapia riparativa». Ma l’omosessualità non è un guasto da riparare...
15 aprile 2009 da l'Unità
di VITTORIO LINGIARDI (Psichiatra)
Sempre più spesso si sente parlare delle «terapie riparative». Più in generale dell’opportunità e dell’efficacia di interventi psicologici mirati a modificare l’orientamento omosessuale. Per carità, quasi nessuno sostiene pubblicamente che queste «terapie» andrebbero imposte come forme di idratazione psicologica per povere anime condannate all’infelicità. Ma in parecchi sostengono che, in fondo, «se è il paziente a chiederlo», perché mai lo psicologo non dovrebbe aiutarlo? Non sarebbe un’imposizione, anzi la massima espressione del rispetto della libertà altrui di scegliere per sé la miglior vita, in questo caso eterosessuale.
Purtroppo, di questi tempi, altre scelte di miglior vita (per esempio sposare la persona amata, uomo o donna che sia) o di miglior morte (per esempio rinunciare a dolorose agonie) godono di attenzioni meno sollecite.Quello del condizionamento «terapeutico» del proprio orientamento sessuale è un tema «sensibile», direbbero alcuni, e dai molti profili: deontologico (è un giusto fine?), scientifico (ricerche affidabili ne dimostrano la praticabilità?), psicologico (cosa spinge una persona a chiedere di modificare la direzione del proprio desiderio?), sociale (la richiesta di «riorientamento» è frutto di una pressione alla conformità?), religioso (c’è un conflitto di valori tra essere gay o lesbica e anche cattolico/a o musulmano/a?).
Un tema così complesso non è sfuggito ai «grandi laboratori culturali» del nostro paese: Sanremo («Luca era gay, ma adesso sta con lei») e Porta a Porta («Gay: si può cambiare», senza punto interrogativo, è il titolo di una recente puntata). È sfuggita invece, anche se segnalata da due agenzie (Ansa e Adnkronos), una ricerca molto interessante, appena pubblicata in Gran Bretagna sulla rivista BMC Psychiatry. Titolo della ricerca: «Come rispondono i professionisti della salute mentale ai clienti che cercano aiuto per cambiare il proprio orientamento omosessuale». LA RICERCALa ricerca, durata sette anni e condotta da Annie Bartlett, Glenn Smith e Michael King della St. George University e della University College Medical School di Londra, ha analizzato le risposte di 1.328 psichiatri, psicologi e psicoterapeuti a un questionario sul tema. Anche se solo il 4% dei terapeuti intervistati riferisce che, su richiesta dell’interessato, proverebbe a modificare l’orientamento sessuale di un paziente, il 17% riconosce di aver condotto intervenuti psicologici mirati a riorientare le preferenze sessuali di qualche paziente gay o lesbica.
Nessuno dei terapeuti intervistati, però, è in grado di raccontare l’evoluzione clinica di questi interventi. In termini tecnici: niente follow up. Le ragioni elencate dai clinici per motivare l’intervento «riparativo» vedono al primo posto la «confusione del paziente circa il proprio orientamento sessuale», al secondo la «pressione sociale e familiare», al terzo i «problemi di salute mentale» e al quarto le «credenze religiose». «L’uomo omosessuale che ho aiutato a diventare eterosessuale», risponde per esempio uno degli psicologi «riparatori» intervistati, «viene da un ambiente operaio dove la deviazione da certe norme è inaccettabile; per lui la cosa più importante era essere accettato dalla comunità». È questo il lavoro dello psicologo? Garantire il massimo adattamento anche a costo di manipolare l’identità? «Per molti uomini e donne», dice il Prof. King, uno degli autori della ricerca, «scoprire di essere gay è motivo di stress. Per questo alcuni si rivolgono allo psicologo (o ci vengono mandati dai genitori) per essere aiutati a cambiare. Di questi psicologi, alcuni magari sono animati dalle migliori intenzioni. Ma quello che dovrebbero fare è aiutare i loro clienti a fare i conti con la loro condizione, a capire che ad avere un problema è la società, non sono loro».
Oggi, requisito minimo di qualsiasi trattamento psicologico è che sia evidence based, cioè basato su ricerche scientifiche in grado di misurarne e provarne l’efficacia. Eppure, concludono gli autori, «una minoranza significativa di professionisti della salute mentale cerca di aiutare clienti lesbiche o gay a diventare eterosessuali. Siccome non esistono ricerche in grado di provare l’efficacia di tali interventi, si tratta di opzioni sconsiderate e spesso dannose». ACCETTARSI
Non stupisce che vi siano persone infelici, gay e lesbiche, che chiedono di essere aiutate a «cambiare» orientamento. Accettarsi e volersi bene non è facile. Per alcune persone omosessuali, sottoposte fin da piccole a condizionamenti sociali, culturali e affettivi (leggi deludere i genitori), può essere particolarmente difficile. Stupisce che vi siano professionisti, anche se una minoranza, che offrono l’illusione di un «riorientamento» senza considerarne le conseguenze dannose sul piano psicologico.La terapia RiparativaInventata da Nicolosi che considera i gay malatiJoseph Nicolosi (1947) è uno psicologo clinico statunitense noto soprattutto per la sua attività come presidente della Nart, National Association for Research and Therapy of Homosexuality (Associazione Nazionale per la Ricerca e Terapia dell’Omosessualità) e come il maggior promotore delle «terapie riparative». Ha focalizzato il suo lavoro su una terapia volta a invertire l’orientamento sessuale dei pazienti omosessuali. Nicolosi la definisce «riparativa» perché sostiene che le persone omosessuali siano in realtà eterosessuali nei quali la naturale sessualità è stata deviata o impedita da dinamiche psicologiche parentali. La sua terapia si pone in aperta contrapposizione con quanto stabilito dall’Ordine Nazionale degli Psicologi. Il Codice Deontologico, infatti, prevede che «lo psicologo non può prestarsi ad alcuna “terapia riparativa” dell’orientamento sessuale di una persona». La terapia riparativa è stata aspramente contestata da una nutrita parte del mondo gay, poiché viene vista come uno strumento che aiuta la diffusione dell’omofobia contribuendo a perpetrare un pregiudizio negativo sull’omosessualità.
15 aprile 2009 da l'Unità
di VITTORIO LINGIARDI (Psichiatra)
Sempre più spesso si sente parlare delle «terapie riparative». Più in generale dell’opportunità e dell’efficacia di interventi psicologici mirati a modificare l’orientamento omosessuale. Per carità, quasi nessuno sostiene pubblicamente che queste «terapie» andrebbero imposte come forme di idratazione psicologica per povere anime condannate all’infelicità. Ma in parecchi sostengono che, in fondo, «se è il paziente a chiederlo», perché mai lo psicologo non dovrebbe aiutarlo? Non sarebbe un’imposizione, anzi la massima espressione del rispetto della libertà altrui di scegliere per sé la miglior vita, in questo caso eterosessuale.
Purtroppo, di questi tempi, altre scelte di miglior vita (per esempio sposare la persona amata, uomo o donna che sia) o di miglior morte (per esempio rinunciare a dolorose agonie) godono di attenzioni meno sollecite.Quello del condizionamento «terapeutico» del proprio orientamento sessuale è un tema «sensibile», direbbero alcuni, e dai molti profili: deontologico (è un giusto fine?), scientifico (ricerche affidabili ne dimostrano la praticabilità?), psicologico (cosa spinge una persona a chiedere di modificare la direzione del proprio desiderio?), sociale (la richiesta di «riorientamento» è frutto di una pressione alla conformità?), religioso (c’è un conflitto di valori tra essere gay o lesbica e anche cattolico/a o musulmano/a?).
Un tema così complesso non è sfuggito ai «grandi laboratori culturali» del nostro paese: Sanremo («Luca era gay, ma adesso sta con lei») e Porta a Porta («Gay: si può cambiare», senza punto interrogativo, è il titolo di una recente puntata). È sfuggita invece, anche se segnalata da due agenzie (Ansa e Adnkronos), una ricerca molto interessante, appena pubblicata in Gran Bretagna sulla rivista BMC Psychiatry. Titolo della ricerca: «Come rispondono i professionisti della salute mentale ai clienti che cercano aiuto per cambiare il proprio orientamento omosessuale». LA RICERCALa ricerca, durata sette anni e condotta da Annie Bartlett, Glenn Smith e Michael King della St. George University e della University College Medical School di Londra, ha analizzato le risposte di 1.328 psichiatri, psicologi e psicoterapeuti a un questionario sul tema. Anche se solo il 4% dei terapeuti intervistati riferisce che, su richiesta dell’interessato, proverebbe a modificare l’orientamento sessuale di un paziente, il 17% riconosce di aver condotto intervenuti psicologici mirati a riorientare le preferenze sessuali di qualche paziente gay o lesbica.
Nessuno dei terapeuti intervistati, però, è in grado di raccontare l’evoluzione clinica di questi interventi. In termini tecnici: niente follow up. Le ragioni elencate dai clinici per motivare l’intervento «riparativo» vedono al primo posto la «confusione del paziente circa il proprio orientamento sessuale», al secondo la «pressione sociale e familiare», al terzo i «problemi di salute mentale» e al quarto le «credenze religiose». «L’uomo omosessuale che ho aiutato a diventare eterosessuale», risponde per esempio uno degli psicologi «riparatori» intervistati, «viene da un ambiente operaio dove la deviazione da certe norme è inaccettabile; per lui la cosa più importante era essere accettato dalla comunità». È questo il lavoro dello psicologo? Garantire il massimo adattamento anche a costo di manipolare l’identità? «Per molti uomini e donne», dice il Prof. King, uno degli autori della ricerca, «scoprire di essere gay è motivo di stress. Per questo alcuni si rivolgono allo psicologo (o ci vengono mandati dai genitori) per essere aiutati a cambiare. Di questi psicologi, alcuni magari sono animati dalle migliori intenzioni. Ma quello che dovrebbero fare è aiutare i loro clienti a fare i conti con la loro condizione, a capire che ad avere un problema è la società, non sono loro».
Oggi, requisito minimo di qualsiasi trattamento psicologico è che sia evidence based, cioè basato su ricerche scientifiche in grado di misurarne e provarne l’efficacia. Eppure, concludono gli autori, «una minoranza significativa di professionisti della salute mentale cerca di aiutare clienti lesbiche o gay a diventare eterosessuali. Siccome non esistono ricerche in grado di provare l’efficacia di tali interventi, si tratta di opzioni sconsiderate e spesso dannose». ACCETTARSI
Non stupisce che vi siano persone infelici, gay e lesbiche, che chiedono di essere aiutate a «cambiare» orientamento. Accettarsi e volersi bene non è facile. Per alcune persone omosessuali, sottoposte fin da piccole a condizionamenti sociali, culturali e affettivi (leggi deludere i genitori), può essere particolarmente difficile. Stupisce che vi siano professionisti, anche se una minoranza, che offrono l’illusione di un «riorientamento» senza considerarne le conseguenze dannose sul piano psicologico.La terapia RiparativaInventata da Nicolosi che considera i gay malatiJoseph Nicolosi (1947) è uno psicologo clinico statunitense noto soprattutto per la sua attività come presidente della Nart, National Association for Research and Therapy of Homosexuality (Associazione Nazionale per la Ricerca e Terapia dell’Omosessualità) e come il maggior promotore delle «terapie riparative». Ha focalizzato il suo lavoro su una terapia volta a invertire l’orientamento sessuale dei pazienti omosessuali. Nicolosi la definisce «riparativa» perché sostiene che le persone omosessuali siano in realtà eterosessuali nei quali la naturale sessualità è stata deviata o impedita da dinamiche psicologiche parentali. La sua terapia si pone in aperta contrapposizione con quanto stabilito dall’Ordine Nazionale degli Psicologi. Il Codice Deontologico, infatti, prevede che «lo psicologo non può prestarsi ad alcuna “terapia riparativa” dell’orientamento sessuale di una persona». La terapia riparativa è stata aspramente contestata da una nutrita parte del mondo gay, poiché viene vista come uno strumento che aiuta la diffusione dell’omofobia contribuendo a perpetrare un pregiudizio negativo sull’omosessualità.
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